Il campo del vasaio

Pensieri sul “Il campo del vasaio” (di Andrea Camilleri, Sellerio 2008)

La bellezza degli ultimi romanzi che hanno come protagonista Montalbano, è a mio parere nel suo riflettere sull’invecchiare.

Il resto è come nei telefilm: interessante perché è già stato visto. Mi spiego, nei telefilm c’è una caratteristica dei personaggi che si snoda attraverso situazioni nuove; si provano tutte le combinazioni fra caratteri, caratterizzazioni e situazioni. Con il piacere, di autori e spettatori, come quello di un bambino che prova tutte le possibili utilizzazioni di un giocattolo che ama e che ha già conosciuto ed imparato ad usare. È quella certa prevedibilità che già pregusta la battuta, macari l’incazzatura di questo o quell’altro personaggio.

Insieme, però, una riflessione che va come fuori dal racconto (come gioca spesso Camilleri) ed ecco che Montalbano si stacca dal personaggio macchietta per riflettere sull’invecchiare, invecchiare come perdita di capacità e non come acquisto d’esperienza, semmai acquisto -se fosse ancora possibile- di scetticismo verso il mondo o meglio verso l’umanità, e anche verso sé stesso. Un pupo in mezzo ad una recita di pupi. Un personaggio dunque e non un vero essere umano.

Ma a ben guardare per questo più umano, più vero e meno personaggio letterario.

Pensate un attimo, infatti, a quanti recitano la loro parte (se non tutti), a quanti sono prevedibili nei loro eccessi verbali, nei loro modi di dire ripetuti, nei loro atteggiamenti stereotipati di risposta, che divengono quasi “tic”… ed eccoli qui nel romanzo di Camilleri: dal “Signori, Signori” di Catarella, al susire in piedi di scatto per una notizia inattesa. Non reazioni spontanee, ma invece modi “culturali” per esprimersi nel mondo, schemi collaudati per interagire con lo spazio circostante.

È allora che la maturità di Montalbano lo porta ad un livello diverso. Questi uomini come Mimì e gli altri, così infantili a volte, un po’ “guappi” e un po’ “atteggioni”, ecco che si scoprono con i loro limiti (più che difetti), in cui si vede come è difficile essere realmente uomini o donne. Ed allora anche il crimine più efferato diviene prova di immaturità, fuga dalla realtà, atto logico però per un mondo fatto di pupi, che vorrebbero essere pupari.

Lo dimostra lo stesso improbabile pentimento del vecchio Sinagra, che non è più a favore della pena di morte. Il mafioso, quello che più di tutti ha cercato e creduto nel potere, anche di vita e di morte, si ritrova ad essere pupo e non puparo. Per avere sbagliato un tempo, per non avere più tempo da vivere, per scoprirsi infine limitato come gli altri.

Ed in fondo, in questa visione idealistica della vecchia mafia, c’è questo cercare di essere uomini in un mondo di mezzi uomini, quelli senza regole né dignità, dignità invece riconosciuta a Montalbano proprio perché nonostante tutto egli si interroga sul senso delle cose che fa, sul senso delle storie che vive, con un senso del dovere che non lo fa cedere -ad esempio- alla fascinosa colombiana o provarci con la bionda svedese, fra l’altro miti erotici dei maschi della generazione di Camilleri.

Romanzo dunque che oltre la macchietta e la prevedibilità di personaggi ben collaudati, s’interroga sull’essere “essere umano” in un mondo egoista e sbagliato, che bada all’apparenza, e dunque favorisce il preoccuparsi del come apparire.